Le più
importanti costruzioni del castello di Mussomeli si debbono a Manfredi di
Chiaramonte : i Castellar lo completarono nel modo come a noi venne
conservato.
A circa un miglio di distanza, a levante dell' abitato, trovò Manfredi una
rupe di eccelsa e pittoresca mole, le cui fronti, tutte a picco e
inaccessibili, meno che a tramontana, le davano l'aspetto d'una naturale
fortezza.
Su quella forte roccia, che domina tutta intorno la sottostante valle, e da
cui si spazia lo sguardo su vasti orizzonti, Manfredi di Chiaramonte seppe
innalzare opere tali di difesa e di comodità, da fame uno dei più
interessanti castelli dell'isola, il monumento più prezioso che di quel
periodo, così geniale in arte come cavalleresco nell'azione, rimase agli
abitanti di Mussomeli.
Aggiriamoci un po' fra quelle antiche vestigia, e senza sforzo di fantasia
potremo ricostruire in tutte le sue parti il monumentale edificio, qual'era
nei tempi del suo massimo splendore.
L'unica salita che ci si presenta è quella di tramontana, costituita da una
strada a gomito e a giravolte.
Dopo aver percorso un sentiero, che si stacca dalla strada rotabile
provinciale per Villalba, troviamo in fondo di esso, con esposizione a nord,
le vestigia, appena visibili, delle esterne costruzioni, fra cui certamente
quella saracinesca o quel ponte levatoio che costituiva nei castelli l'opera
di prima difesa.
Alla prima svolta, salendo per una via erta, si presenta al nostro sguardo
la porta del recinto inferiore. L'edificio è nello stile ogivale, che
conservò il suo imperio fino a tutto il secolo XIV°, come ne fan fede quegli
splendidi monumenti che sono a Palermo il Palazzo Chiaramonte ed il Palazzo
Sclafani.
Da questo punto noi possiamo ammirare la compattezza delle fabbriche, dovute
alla buona qualità della malta e della pietra cavata dalla stessa roccia,
l'uso abbondante di pietrame a spigolo vivo, specialmente nei piedritti,
negli archi e nelle cantonate, requisiti tutti per cui il castello,
nonostante il lungo abbandono, ha potuto resistere alle ingiurie di ben
cinque secoli.
Ai due lati della porta d'ingresso, e propriamente presso i punti sui quali
s'imposta l'arco a sesto acuto, un accurato osservatore scorgerà due stemmi
intagliati sopra dadi della stessa pietra, che, per la sua poca resistenza,
non ha conservata bene l'antica impronta.
Il dado, a destra di chi guarda, porta scolpito un giglio senza altri
accessori, poiché il giglio occupa buona parte del quadrato, e la scultura
non continua nei dadi adiacenti. Lo stesso disegno pare che porti il dado di
sinistra, ma non si rileva chiaramente.
Che cosa rappresenti quel giglio non è facile spiegare, dappoiché, passati
in rassegna gli stemmi di coloro che tennero la signoria di Mussomeli,
nessuno di questi stemmi ha una lontana somiglianza coi rilievi che noi
vediamo ai lati della porta.
Non sarà assurdo il congetturare che in origine quei due dadi portassero le
armi dei Chiaramonte, consistenti, come abbiamo detto, in un monte dalle
cinque cime rotonde a mo di ventaglio: cosa più che naturale se si riflette,
che chi costruì il castello, con tanto lusso ed esattezza di particolari,
doveva pur lasciare impresso in qualche punto e specialmente nella porta
principale lo stemma di sua famiglia.
Caduti i Chiaramonte, si volle disperdere anche qui qualsiasi traccia della
loro potenza, e al monte dalle cinque cime a forma di ventaglio si sostituì
un giglio, facendo sparire le estreme e basse cime, e modificando le tre
alte.
Quel giglio fu messo lì a rappresentare probabilmente il dominio di Don
Giaimo de Prades, dappoiché, come ci attesta l'Inveges, i due stemmi che si
attribuiscono ai Prades portano entrambi, sparsi nel campo, diversi gigli.
E se, invece del vero stemma, un solo giglio rimase, come simbolo, a
rappresentare la famiglia, ciò non dovrà recar meraviglia, in quanto non
sarà stato facile trovare in quei tempi a Mussomeli un intagliatore così
esperto da mutare uno stemma in un altro di forma del tutto diversa.
Da un lato e dall'altro della porta, mura alte e robuste, coronate di merli,
seguono la giacitura e le accidentalità della roccia, rendendo diffìcile
l'approccio da questo lato di tramontana, il solo che avesse avuto bisogno
di opere di difesa.
È quindi naturale che questo primo recinto, tanto essenziale alla sicurezza
del castello, sia stata opera del Chiaramente, che fu appunto il fondatore
della fortezza.
Entrando nel primo spazio scoperto, che si stende fra le mura e gli altri
fabbricati, noi possiamo in tutte le sue parti attentamente osservare la
maestosa e solida costruzione del muro esterno, del parapetto, della
merlatura, delle feritoie, opere tutte che ridestano i ricordi delle
emozionanti difese dei soldati di acciaio nell'epico periodo del Dinanzi la
porta del primo recinto si trova la scuderia che, nella sua vasta dimensione
di m. 37 per m. 6,50, è capace di contenere comodamente cinquanta cavalli.
Nel muro a nord, che fa parte della cinta esterna, si aprono quattro
feritoie che, con le finestre del muro di ponente, servono altresì ad
illuminare l'immenso vano.
Nel muro di mezzogiorno, insieme ad una finestra che aggiunge luce alla
scuderia, sono diligentemente incavati sette piccoli armadi, ed un altro più
grande se ne osserva presso la porta.
Sopra la stalla stendesi il fienile e, sui muri esterni di tramontana e di
ponente, la stessa linea di merli corona poderosamente quel vasto
fabbricato.
Salendo per una strada serpentina alla parte superiore del castello, al
secondo recinto, alti e robusti muri s'impongono alla nostra osservazione.
Per lo stato migliore di conservazione e, direi quasi, per una certa
freschezza d'insieme, riteniamo dover questi rimontare ad un'epoca
posteriore a quella in cui vennero eseguite le fabbriche a valle, pur non
essendo diverso lo stile architettonico.
Ciò è anche dimostrato dallo stemma che si trova ai due lati della porta,
formato da un castello con tre torri merlati: è lo stemma della famiglia
Castellar; a cui feudalesimo medievale, si debbono evidentemente queste
ulteriori costruzioni.
Ma un altro stemma che trovasi sopra la porta pone l'osservatore
nell'imbarazzo.
Il disegno non si rileva in tutte le sue linee, e la scultura è logora per
la poca resistenza della pietra adoperata.
Potrebbero essere le armi della famiglia Del Campo, che dopo i Ventimiglia
tenne per circa un secolo la signoria di Mussomeli: scudo partito con tre
aquile. Un'aquila infatti vi si potrebbe raffigurare: le altre due debbano
aggiungersi con l'immaginazione.
È indubitato che quello stemma appartenga ad un periodo posteriore a, quello
in cui venne costruita la porta cui fa corona: il dado di pietra infatti,
sul quale esso venne scolpito, è così poco aderente alle circostanti pietre
intagliate, che mostra evidentemente di essere stato colà incastrato da
taluno come ai due stemmi del Castellar volle aggiungere il suo.
Ora, non somigliando esso allo stemma dei Ventimiglia, " campo diviso in
rosso ed oro ", né a quello dei Lanza, " leone nero rampante in campo di oro
e rosso ", chi poteva se non la famiglia Del Campo lasciare su quella porta
l'impronta del dominio.
Occorre poi riflettere che, se espertissimi furono gli artefici che
fabbricarono il castello, lo stesso giudizio non potremmo dare di tutti
coloro che eseguirono le opere di fino intaglio, talune delle quali lasciano
non poco a desiderare: e ciò spiega come non si possa negli stemmi, che qui
si veggono, ritrovare il disegno preciso.
La porta che abbiamo osservato e che per forma e dimensione somiglia a
quella del primo recinto, immette in un atrio scoperto e chiuso ad oriente
da un alto muro, in cui si veggono delle feritoie, una nicchia con sedile e
una scaletta sporgente, che poteva anche servire di vedetta.
A ponente vedonsi le balze scoscese della roccia che si eleva ancora a
considerevole altezza, e in fondo, a mezzogiorno, gli appartamenti
signorili.
Un arco a sesto acuto divide l'atrio scoperto da un vestibolo, attorniato da
sedili, che immette in un'altra stanza quasi uguale alla precedente, e
questa in una terza, bipartita da un arco. La piccola dimensione degli usci
comunicanti dimostra chiaramente che queste erano stanze di passaggio e di
servizio: eppure, prima ancora d'inoltrarci nelle sale signorili, sentiamo
già in quelle palpitare la vita dei secoli lontani: scudieri, armigeri e
servi sdraiati sui sedili in attesa degli ordini del signore; muri ricoperti
di lance, di sciabole, di moschetti; armadi pieni di giberne, di giavellotti
e di arredi di ogni sorta si presentano con vivezza di colori alla nostra
calda immaginazione, come se nessuna offesa avesse ivi apportata l' opera
distruttrice del tempo.
Nel fondo dell'ultimo vano, l'ampia porta che conduce alle sale signorili,
costruita con tutte le regole dell'arte, dopo il passaggio obbligato di due
porticine basse, quasi segrete, costituisce una discordanza architettonica,
che non si potrebbe in altro modo spiegare, a nostro giudizio, se non
congetturando che prime a sorgere siano state le sale signorili, alle quali
si accedeva direttamente dall' atrio scoperto, e che le stanze d'accesso
siano state costruite dopo.
Entrando nelle stanze signorili, ci troviamo interamente sotto l'impero
dell'architettura ogivale, ed il carattere generale della costruzione ci
richiama tantosto ai monumenti del secolo XIV°.
A cominciare dalla prima stanza sono da ammirare i robusti archi ogivali a
costolone, i quali, impostando su quattro mezze colonne, piantate agli
angoli della sala, decorano gli spigoli della grande volta a crociera.
I pilastri e i costoloni sono di pietra d'intaglio; i capitelli sono
decorati a fogliame, di lavoro non fine, ma non privo di carattere artistico
; e le graziose ed esattissime sagome sono eloquente dimostrazione del gusto
dei tempi e dell'abilità degli artefici. Presso all'angolo sud-est si apre
nel muro di mezzogiorno una grande finestra bifora, che ricorda quelle
splendidissime del palazzo Steri di Palermo, e quelle più semplici della
villa dei Chiaramonte alla Guadagna.
La finestra ha nel suo vano due sedili, l'uno di contro all'altro : quivi
noi, riposando il corpo stanco dalla faticosa salita, possiamo contemplare,
nel suggestivo silenzio della campagna, lo splendido panorama che si stende
sotto i nostri sguardi: i dolci e verdi pendii, il fondo luccicante della
vallea, i gioghi opposti, rotti da profondi dirupi, e più in là, nella loro
grigia tinta, altri monti, altre terre, altri paesi, e ancor più lontano,
nel suo splendore di neve, la vasta piramide dell'Etna.
E intanto, in questa estatica contemplazione, ci sentiamo attratti da una
forza misteriosa, che, richiamando lo spirito ad un dolce raccoglimento, ci
fa sentire la voce dei secoli, che hanno lasciato orme di splendore in
questo inanime, ma pur tanto eloquente, avanzo del passato.
Questa prima stanza sembra che fosse stata destinata al desinare, come lo
dimostra la piccola cucina adiacente, che per il sito e le sue piccole
dimensioni non poteva essere la sola cucina del castello.
Nel passaggio fra questa stanza e quella di destra, una piccola scala
conduce ad un sotterraneo e ad una latrina dalla porta civettuola, di stile
moresco: un capriccio dell'architetto, che non induce certamente ad
attribuire agli arabi tale costruzione.
Il grande vano di destra, l'ultimo dal lato di ponente, era la camera da
letto dell'appartamento, è coperta da due volte a crociera, divise fra loro
da un arco mediano a costole rilevate ; e gli archi posano sopra sei mezze
colonne, di cui le quattro agli angoli sono quasi uguali a quelle della
stanza precedente, e le due nel mezzo di base più larga.
Ammirasi nel muro di mezzogiorno una finestra uguale a quella dianzi
osservata, in quello di ponente un' altra finestra murata, e dirimpetto,
l'accesso ad una piccola latrina che è all'altra soprastante.
Due armadietti incavati nei muri, non diversi da quelli che abbiamo prima
osservati, completano gli agi della camera destinata al riposo : arido
conforto invero in tanta ricchezza di architettura.
A sinistra della stanza che chiameremo da pranzo, trovasi la sala di
convegno o di ricevimento,nulla di diverso richiama qui la nostra
attenzione, fuorché un grande camino, incavato nel muro di tramontana, che
per la sua forma richiama alla memoria quelli splendidissimi che s'ammirano
nel Castello del Monte presso Corato, costruito da Federico lo Svevo per i
suoi passatempi di caccia.
Nello stesso muro, in alto, un'apertura a forma dì feritoia comunica con una
delle stanze di servizio, che abbiamo dianzi attraversate.
Quella feritoia non fu aperta lì a casaccio, e dovette un giorno compiere
naturalmente il suo ufficio di vedetta e difesa.
Ciò viene a confermare la nostra induzione, che a nord delle sale signorili
si fosse dapprima prolungato l'atrio scoperto, e che soltanto nelle
costruzioni ulteriori fosse stato quello spazio diviso in tre vani.
Una piccola porta nel muro di levante, presso il camino, mena in una
stanzetta di superficie triangolare, che per una ripida scaletta comunica
con un'altra, sovrastante, della medesima dimensione.
Quest' ultima è oggi chiamata la camera delle tre donne per un' antica
leggenda carezzata dagli abitanti di Mussomeli.
Narrasi infatti, che abitava un giorno quel castello un ricco e potente
signore, il quale aveva tre sorelle, belle come Dio potè farle.
Dovendo egli recarsi alla guerra e non avendo chi lasciare alla custodia di
esse, pensò di chiuderle in questa camera, lasciando loro, per mantenersi,
pane, farina, vino, polli e tutto quello che avrebbero potuto desiderare,
murò le porte e partì.
La guerra durò più del tempo che egli aveva previsto; e al ritorno suo primo
pensiero fu quello di andare a trovare le sorelle : ma quale non fu il suo
dolore quando, smurate le porte, le vide tutte e tre distese a terra, morte
dalla fame, e colle suole delle scarpe in bocca.
D'allora in poi quella stanza venne chiamata la cammara di li tri donni, ed
il popolo le rimpiange tuttora le povere tri donni.
Questa leggenda non è che una versione di quella narrata dal Pitrè, e la cui
scena è nei sotterranei del Palazzo reale dj Palermo il fenomeno assai
frequente nella storia delle tradizioni popolari, dappoiché il popolo, nella
sua fantasia, spesso attribuisce ai propri luoghi ciò che ha inteso un
giorno raccontare, e che ricorda confusamente.
Dalla stanzetta triangolare sottostante, che prende luce da una feritoia, si
passa nella grande sala del castello per mezzo d' un piccolo uscio, uguale a
quello che divide la stanzetta medesima dalla sala di convegno ; ma la porta
principale per cui si accedeva in essa, non è questa; è quella, molto
artistica, che si apre nel piccolo vestibolo, che segue l'atrio scoperto e
precede le stanze di servizio. Questa disposizione di porte mostra che chi
costruì le tre stanze, da noi visitate, non ebbe allora l'intendimento di
aggiungervi questa grande sala, altrimenti avrebbe lasciata una
comunicazione di maggior rilievo, e non avrebbe da questa parte chiuso
l'edificio con quella stanzetta triangolare destinata certamente a modesti
bisogni.
Riteniamo quindi che la grande sala appartenga ad un'epoca posteriore, nella
quale probabilmente vennero anche costruiti i tre vani di accesso alle sale
signorili. essa è infatti di una costruzione alquanto diversa dalle altre,
ed è forse per ciò che pagò il suo tributo al tempo demolitore colla rovina
del tetto e del solaio.
La maggior differenza è nel tetto, che, mancando ogni vestigia di colonne e
di costoloni, o altro segno di volta ad arco, dovette essere piano e a
grandi travature, come quello che si ammira tuttora nella vasta sala del
palazzo Steri, fabbricata da Manfredi III° di Chiaramonte.
La grande sala del castello, che misura 18 metri di lunghezza e 6 di
larghezza, è illuminata da due finestre, che non sono precisamente uguali
alle altre, con cui pure allo esterno sono nella stessa linea, ma, benché
bifore anch' esse, hanno dimensioni diverse, ciò che confermerebbe la
differente età di costruzione.
Non sappiamo però se questo avancorpo fosse opera dello stesso Manfredi, che
iniziò la costruzione del castello, o dei Castellar che lo completarono.
Nel primo caso sarebbe accettabile la tradizione, tuttora viva nel paese,
che appunto in quella sala avesse avuto luogo l'adunanza dei Baroni indetta
da Manfredi nel 1391, prima che avvenisse quella decisiva di Castronovo.
Il Tutto in verità contribuisce ad accreditare tale tradizione, E quale sala
avrebbe potuto trovarsi, nell'interno dell'isola, più vasta, più bella, più
maestosa, per riunire il fiore della nobiltà siciliana.
Ritornando per la grande e bellissima porta nell'atrio scoperto, forse un
giorno destinato a giardino, presso il piedritto sinistro dell'arco di
comunicazione, avvi una scala per cui si discende nei sotterranei.
Stendonsi questi al di sotto delle stanze che abbiamo percorso, in parte
costruiti in malta e pietrame, in parte scavati nel vivo sasso; taluni
illuminati da poche feritoie o da qualche lucernario, altri interamente al
buio.
Il popolo, nella sua fantasia, chiamando camera oscura uno di questi
sotterranei, lo ritiene il luogo destinato da quei tirannotti ai più
esacrandi delitti.
Questi vani invece costituivano il comodo del castello, e servivano per
abitazione di domestici ed uomini d' armi, per magazzini, per cantine e per
altri usi di servizio.
Non possiamo dilungarci a descrivere i tanti particolari interessantissimi
di questo singolare edificio, perché usciremmo troppo dai limiti di una
memoria storica ; ma non possiamo esimerci da! condurre ancora il lettore in
due altri edifici isolati, l'uno e l'altro, per diverse ragioni, degnissimi
di essere illustrati.
Dall'atrio scoperto, per una breve ed erta strada a gomito, si sale nella
chiesetta o cappella, che ha una porta a sud ben decorata, sul genere di
quella della chiesa di S. Francesco della città di Palermo e di molte altre
di quell'età.
Il tempo però corrose i fini intagli di quella pietra poco resistente, in
modo che a mala pena si può oggi distinguere l'elegante disegno.
Il tetto, come quello della camera da letto, è formato da due volte a
crociera divise da un arco mediano.
La estensione della cappella è di circa m. 10 per m. 4,70, L'altare è nello
stesso stile ogivale, e le colonnette degli angoli sono di elegante
struttura.
Le bruttissime sovrapposizioni in gesso, vera profanazione dell'arte, sono
di epoca molto posteriore, e furono eseguite per conformare l'altare alle
prescrizioni del Sinodo, siccome fu volontà d'un canonico di Girgenti quivi
venuto, nel 1614, in visita pastorale. Nei muri della chiesa si aprono
finestre-feritoie, più pel passaggio dell'aria e della luce che per uso di
difesa. Nel muro dirimpetto all'altare, presso una finestra, dai lati
spezzati in modo da formare molti angoli retti, una scala a chiocciola, ben
disposta, mena ad una stanzetta, alloggio forse del cappellano o del
custode.
Non si sa a quale santo fosse stata nei primi tempi dedicata quella
chiesetta, dove più tardi fu venerata, come vedremo, la Madonna della
Catena, ma poco importa: in quei secoli pieni di misticismo e di sacro
terrore per i minacciati fulmini del Cielo, quel luogo accomunava tutti,
signori e vassalli, padroni e servi, ricchi e poveri, in una stessa fede, in
una stessa preghiera, e dinnanzi alla suprema maestà di Dio si temperavano
le disuguaglianze sociali.
Uscendo dalla chiesa e salendo ancora per una più erta e faticosa strada si
giunge al culmine della rocca.
Trovasi ivi un fabbricato saldissimo, di superficie rettangolare, le cui
mura misurano uno spessore di m. 1,80. L'edificio, coronato di merli, oggi
distrutti, pare non avesse avuto tetto.
Nel centro del muro di tramontana si apre una finestra, ed a fianco, presso
l'angolo, una feritoia: nulla esiste invece negli altri muri, fuorché una
porta in quello di ponente; e non vi sono fabbricati accessori.
I Mussomelesi chiamano questo fabbricato il mulino a vento; ma noi non
abbiamo trovato vestigia di mulino, nemmeno pezzi di quella ruota, che
doveva essere voluminosa e potente per resistere al vento, che ivi soffia
impetuoso. Stimiamo piuttosto che, mulino o no, fosse stato destinato a
posto di vedetta e di suprema difesa.
Ed è quello un punto veramente inespugnabile.
Di là, scorrendo attorno lo sguardo, si poteva d'ogni lato scorgere il
nemico un'ora prima che arrivasse.
La strada, che dai piedi della rocca sale lassù, come un nastro
serpeggiante, è tutta lì sotto; e dietro i merli, e dalle finestre, e dalle
feritoie, sporgenti appunto nel solo fianco accessibile della rocca,
potevano gli armigeri del signore, come nel castello dell' Innominato,
puntare cento volte le armi contro gli invasori e, prima che uno di essi
toccasse la cima, farne ruzzolare a fondo parecchi.
Una compagnia di soldati, ivi afforzata, avrebbe potuto in quei tempi esser
presa per fame o per tradimento, giammai per virtù d'armi.
Non senza ragione Giovanni Adria, medico di Carlo V°, scrivendo di Mussomeli
nel secolo XVI, definiva questo castello : eminens, forte, pulcrum, cum par
non invenitur in hac regione.
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